Dipendenza da videogiochi: per l’OMS è un disturbo mentale…ma è davvero così?

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Fra le novità introdotte dalla nuova bozza della Classificazione internazionale delle malattie (Icd-11) che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha in pubblicazione c’è il ‘gaming disorder‘, la dipendenza da videogiochi, considerata “una malattia”.

Qualcosa che spesso diversi genitori avevano pensato, vedendo i loro figli rapiti dagli schermi di PC e smartphone.

“Ho pazienti che soffrono di una dipendenza da Candy Crush Saga, che sono sostanzialmente simili alle persone che arrivano con un disturbo della cocaina. Le loro vite sono rovinate, i loro rapporti sociali ne risentono, la loro condizione fisica peggiora”.
(Petros Levounis, presidente del dipartimento di psichiatria della Rutgers New Jersey Medical School).

Quello dei videogame è un settore in crescita a livello mondiale, il cui fatturato annuale per l’Entertainment Software Association aumenterà del 31% entro tre anni.

La “dipendenza dai videogiochi” consisterebbe in “una serie di comportamenti ricorrenti o persistenti che prendono il sopravvento sugli altri aspetti della vita comune. Lo schema del comportamento di gioco può essere continuo o episodico e deve essere evidente nell’arco di un periodo di almeno un anno”.
Tre i sintomi che possono portare a una diagnosi relativa alla dipendenza da videogioco:

  • Il gioco ha la precedenza su tutte le altre attività, considerate meno importanti;
  • Un controllo alterato del comportamento: anche in caso di conseguenze negative, dettate da provvedimenti presi ad esempio dai genitori (se il soggetto è giovane), il bisogno di giocare con diminuisce, anzi;
  • La presenza di stress e angoscia, e in generale problemi a svolgere tutte quelle occupazioni (lavorative, di studio, personali e familiari) che esulano dal contesto video-ludico.

Se avete notato si tratta di sintomi molto vicini a quelli relativi alla dipendenza da sostanze stupefacenti.

OMS SULLA DIPENDENZA DA VIDEOGIOCHI

Secondo l’OMS, insomma, con i videogiochi è meglio non esagerare. L’inserimento della nuova sindrome da dipendenza da videogiochi nell’ICD non deve però spaventare più di tanto.
L’articolo scritto da 28 ricercatori chiedono all’OMS e alla American Psychiatric Association (APA) di rivedere le loro posizioni per due principali motivazioni (Bean et al., 2017).

In primo luogo viene evidenziata la mancanza di trasparenza sui criteri diagnostici della dipendenza da videogiochi: è una nuova patologia o l’espressione di un disturbo già riconosciuto, che può appunto sfociare in una dipendenza?

In secondo luogo il metodo di ricerca sul gaming disorder non sembrerebbe essere affidabile: quello utilizzato sembra essere costruito ad hoc al fine di ottenere uno specifico risultato.

L’APA, forse in un eccesso di zelo, avrebbe paragonato la dipendenza da videogiochi a quella da sostanze come alcool e droga. Ma se fosse così, prendiamo una semplice frase nota ai clinici, “Di solito uso sempre un po’ di _____ per rilassarmi dopo una giornata stressante”. Sostituire quel _____ con “cocaina” o “Clash Royale” non è la stessa cosa.

PERCHÉ L’OMS SEMBRA AVERCELA CON I VIDEOGIOCHI?

Stando ad alcune dichiarazioni degli stessi funzionari dell’OMS, pare che l’organizzazione abbia ricevuto pressioni politiche da alcuni paesi asiatici. In alcuni di questi paesi l’educazione sul controllo dei comportamenti, specie dei giovanissimi, in relazione al mondo virtuale è sfuggito di mano a gran parte dei genitori. Ne sono un esempio i campi dove la dipendenza dei ragazzi cinesi da internet e videogiochi viene “curata” in modo militare. Oppure la Shutdown Law coreana (2011) creata per vietare l’accesso ai minori di 16 anni a videogiochi e servizi online da 00:00 alle 06:00 del mattino.
Se il gaming disorder venisse quindi inserito nella lista delle malattie riconosciute dall’OMS si potrebbe impugnare questo provvedimento a proprio favore.

 

 


Bibliografia

Bean, A., Van Rooji, A.J., Nielsen, R.K.l. & Ferguson, C.J. (2017). Video Game Addiction: The Push To Pathologize Video Games. Professional Psychology Research and Practice. 48(5).

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